Se pensate che una volta terminato il processo di branding, cioè di definizione della sua identità e della sua presenza sul mercato, le fatiche per un’azienda finiscano, vi sbagliate.

 

I brand, infatti, ci assomigliano molto (del resto li creiamo noi): nascono, crescono, ma soprattutto, nel tempo, per non invecchiare o scomparire dalla piazza, cercano di aggiornarsi, “ringiovanendosi” o addirittura trasformandosi completamente in altro.

 

Questa operazione, di cui già avevamo parlato un po' più schematicamente qui, va sotto il nome di “rebranding”.

 

Alla base ci possono e devono essere ragioni reali e molto specifiche, anche perché alterare l’identità senza apparenti motivi può disorientare il proprio target di riferimento, portando a conseguenze più negative che positive.

 

Uno dei motivi è l’incapacità di un marchio di adeguarsi alle attuali logiche di comunicazione e agli spazi che delineano; la presenza sulle diverse piattaforme e canali online impone determinate proporzioni e la versatilità di un logo, sia grafica che espressiva, è fondamentale per potersi adattare senza perdere di efficacia. Spesso in questi casi si interviene solo con un adeguamento o un’integrazione alla brand identity già consolidata.

 

La questione è diversa quando avviene un’operazione strategica di riposizionamento aziendale, di prodotto oppure, come capita molto spesso nelle aziende B2B italiane, quando ci si accorge che il reale posizionamento commerciale non coincide più con un brand definito dieci, venti o trenta anni fa. In questi casi lo studio strategico e la revisione di tutto l’impianto grafico, visivo e di comunicazione, subiscono stravolgimenti maggiori.

 

Ma alla base vi possono essere anche ragioni di altro tipo, come fusioni e acquisizioni aziendali o crisi di reputazione.

 

Occorre lavorare in particolare su forma e contenuto della mission, che comprende gli scopi che l’azienda si prefigge e le ragioni che la renderebbero unica, perché sarà l’elemento che più di tutti determinerà il tipo di risposta degli utenti al rebranding stesso.

 

Ancora più delle nostre parole possono rendere l’idea alcuni esempi famosi:

 

·      Apple, con l’arrivo di Steve Jobs nel 1997, ha diversificato la propria offerta, che non si è più limitata ai pc ma si è estesa a dispositivi come gli iPhone. Ciò ha comportato il cambio del nome da “Apple Computer” ad “Apple” e l’introduzione di claim come il celebre “Think Different”, che le hanno permesso di ampliare il portafoglio clienti e accrescere la quota di mercato;

 

·      McDonald’s circa venticinque anni fa decise di cominciare a offrire “food” un po' meno“junk” del solito e il logo si adeguò: il colore dello sfondo su cui campeggiala famosa M gigante cambiò colore, da rosso a verde bosco, per comunicare l’idea di un’offerta molto più in linea con la ritrovata sensibilità green e healthy;

 

·      Alitalia, in seguito alle controversie politico-finanziarie che negli anni l’hanno coinvolta e ai conseguenti passaggi di proprietà e amministrazione, ha cambiato il proprio nome in ITA Airways, con successivo adeguamento generale non tanto come logo, che ricalca stile e colori del precedente per richiamarne l’identità, quanto nella livrea dei velivoli;

 

·      Airbnb, alla sua nascita, ha voluto realizzare un logo “che chiunque fosse in grado di disegnare”, per comunicare una sensazione di familiarità, e che fosse aperto alle più varie interpretazioni, per trasmettere il concetto dell’unicità dell’esperienza di soggiorno, diversa da cliente a cliente. Negli anni questa idea ha prestato il fianco ad accuse di plagio o di cattivo gusto estetico, ma, secondo i fondatori, ha anche soddisfatto le previsioni, in termini economici e di immagine, in quanto ognuno, realmente, ci ha visto “quello che voleva vederci”.

 

Ma un rebranding, come dicevamo all’inizio, in taluni casi può non funzionare se appare insensato agli utenti e ai fruitori del brand.

 

Gap, nota azienda di abbigliamento statunitense, ha cercato di ringiovanire il proprio logo utilizzando però il font Helvetica, ritenuto da utenti e addetti ai lavori troppo inflazionato, e cancellando l’elemento distintivo del marchio, ovvero la famosa “scatola blu”, rimpicciolendola e ponendola sullo sfondo come semplice omaggio al passato: l’azienda ha scelto quindi di ritornare alla vecchia immagine, ritenuta ancora valida nel rispecchiare l’identità del brand.

 

Non è detto, quindi, che il rebranding sia qualcosa che “si è costretti a fare” o un segno di debolezza o vanità.

 

Anzi, può venire interpretato come prova della serietà, dell’umanità o anche della lungimiranza di un brand, che non si adagia, ma rischia e si mette in gioco: se vince la sfida ne guadagneranno tutti, se fallisce potrà trarre dai propri errori insegnamenti utili per il futuro, in vista di un guadagno differito, ma doppio.