Articolo breve e telecomandato dall’editoriale del mese di ottobre.

 

Premesse, perché di questi tempi sono sempre doverose: odio le lamentele, amo il mio paese, non voglio espatriare, mi piacciono i gatti (vabbè, l’ultimo è giusto per posizionarmi).

 

Detto ciò, abbiamo due problemi endemici; il primo lo individuò il compianto EnzoFerrari quando disse che “Gli italiani non perdonano il successo”, l’altro invece è esattamente l’opposto. Già, perché anche il fallimento, dalla forma più banale fino a quella più complessa e fragorosa, è considerato un peccato capitale.

  

Intendiamoci, vorrei purificare il concetto da possibili implicazioni giudiziarie, parlando solo dei suoi limiti culturali e della sua accettazione sociale. Anzi: è proprio la sua non accettazione che innesca quella degenerazione irreparabile intensificata dal continuo e progressivo affrontare la situazione in modo irrazionale, molto spesso per ansia e paura del giudizio.

 

Il fallimento è parte integrante del prendere una decisione, dell’intraprendere, dello sviluppare un progetto. È parte del metodo, forse è il metodo stesso.

 

Siamo spinti sempre di più ad essere e ragionare come “imprenditori di noi stessi”, sia (ovviamente)come liberi professionisti che come parte di una società e, in questa logica, è fondamentale riconoscere la possibilità dell’errore come una necessità di passaggio.

 

L’abbiamo sintetizzato con il termine “fail fast” ed è l’atteggiamento che considera il fallire come apprendimento, che permette una costante evoluzione dei progetti e la selezione naturale tra ciò che funzione e ciò che, per il bene di tutti(mercato, imprenditori e lavoratori stessi), deve essere necessariamente concluso.

 

Per fare ciò, devono essere presenti però due elementi chiave, quelli che in sostanza ci permettono di rispondere all’editoriale:

 

-      Una cultura che abbia la forza di non demonizzare l’errore;

-      Un sistema con offra i contrappesi giusti e bilanciati per sostenere le persone che tentano e osano anche se falliscono.

 

Sulla prima abbiamo molto da imparare, sulla seconda invece devono lavorarci ancora un po’ anche quelli sulla costa pacifica.

 

Giusto per dare in pasto ragioni alla tesi: Groupon, Twitter e GoPro sono tre significativi esempi di come l’analisi del fallimento iniziale abbia permesso una lucida revisione del modello di business per i successivi sviluppi. Il resto è storia.